Articoli di Giovanni Papini

1956


in "Schegge":
Il muro dei gelsomini

Pubblicato su: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXI, fasc. 7, p. 3
Data: 8 gennaio 1956




pag. 3



   Rare volte ho parlato, nelle mie opere, di mia madre benché sia stata lei il primo e, per lunghi anni, l'unico amore profondo della mia vita. Quest'anno è il centenario della sua nascita e voglio commemorarlo con qualche visione non ancora sommersa dalla crudeltà del tempo.
   Quando la conobbi — cioè il giorno che la sua immagine per la prima volta si stampò nella mia memoria — mi apparì bellissima. Capelli neri, occhi neri fieri e amorosi, la bocca un po' dischiusa e pronta al sorriso, la carnagione colorata dal caldo ricordo di un sole nascente e nel viso i segni e i riflessi di un'anima appassionata, di una natura mobilissima che poteva passare rapidamente dalla tenerezza al furore, dalla gaiezza alla disperazione.
   Ogni volta che tento di rintracciare nel passato le impronte della beatitudine mi rivedo accanto alla mamma nei pomeriggi d'inverno quando calava presto la notte, seduti a una stessa tavola, sotto la luce quieta che veniva dal globo di vetro appannato del lume a petrolio. Lei, tutta rinvoltata in uno scialle di lana celeste, cuciva con l'ago o con la macchina; io appiccicavo sopra un foglio grandi farfalle azzurre o piccoli cammelli color sabbia o strane bambine danzanti con la gonna rossa. La strada era silenziosa, in casa non c'era nessuno all'infuori di noi due, soli soli, vicini vicini, al riparo dal vento, dal freddo, dal buio e io mi sentivo salvo e sicuro sotto la protezione della luce calma della lampada e degli occhi lucenti e potenti di mia madre.
   Spesso ella cantava e rideva. Cantava a mezza voce certi canti popolari antichi, ingenui e malinconici, che mi riempivano il cuore di una mesta, misteriosa dolcezza. Rammento ancora i primi versi di qualcuno di quei patetici, melodiosi canti: «Bell'uccellin del bosco», «E da quanto bella ell'è», «Ell'eran tre sorelle e tutt'e tre d'amor», «Sulla riva dell'alto mare» e sento ancora nell'anima non invecchiata l'eco della musicale commozione di quelle cantilene nostalgiche e remote.
   Ma i ricordi più dolci e nitidi sono quelli delle nostre sortite all'aria aperta e libera, sui lungarni, nei giardini, nei viali, per le strade delle campagne. Si andava fuori quasi tutti i giorni anche se il tempo era imbronciato o corrucciato, con celeri passi e allegri visi.
   Mia madre aveva due vestiti soli per uscire: uno color ruggine per l'inverno e uno color tortora per le belle stagioni. Io ero felice quando la vedevo tirar fuori dall'armadio il vestito chiaro perché era segno che stava per cominciare l'ariosa festa della primavera e l'ardente follia dell'estate.
   Tra le passeggiate dei mesi di sole s'affaccia dominante alla memoria quella che ci portava su per la via delle Campora, fuor della Porta Romana, fin quasi al Ponte all'Asse. In quel tempo beato — settanta anni fa — quella cara strada era solitaria, deserta, tranquilla, quieta, silenziosa, pulita, familiare, cordiale, quasi intima, odorosa di verdura nuova, con qualcosa d'onesto e d'antico, di vita riposata e senza mutamento. Saliva dolcemente serpentando tra case rade e con frequenti aperture sui campi e sulle vallette gentili che si allungavano verso Bellosguardo e verso la Greve. A mano sinistra si alzavano dei muri più alti e neri, ma dalle feritoie per lo scolo delle acque venivano fuori ciuffi di spighe rigogliose e mazzi di rossi papaveri spampanati.
   Il punto prediletto dove ci si fermava a lungo era un muricciolo alla sommità di una specie di barbacane che dava sopra un bel vigneto giovane. Il muro sotto di noi era tutto coperto di fronde rampicanti di varia forma e famiglia ed erano proprio la meta del nostro innocente ladrocinio. A mezzo giugno fiorivano su quel muro di vecchia pietra forte, al solatio, i desiderati e sognati gelsomini. La mamma, seduta sul muricciolo, allungava la mano più che poteva e coglieva quanti gelsomini riusciva a raggiungere. In quei momenti pareva un'altra: un rosso vivo di fuoco le accendeva le guance, forse per effetto del sole o per lo sforzo inconsueto o per la paura di essere veduta da qualcuno in quell'impresa di saccheggio.
   Appena aveva colto tutti i gelsomini a portata di mano li accostava al viso per aspirarne la calda fragranza eppoi, lesta lesta, li metteva nella sua bolgetta di paglia fiesolana adattissima a nascondere le nostre refurtive campestri.
   La nostra famiglia era povera e la mamma non poteva mai entrare nella bottega di un profumiere. Ma teneva sul marmo del cassettone una grande ciotola di vetro quasi piena di spirito dove metteva a macerare i petali di rosa, foglie d'erba cedrina. ramicelli di spigo, violette. giaggioli e quanto altro di odoroso le capitava. Aveva così, con la spesa di pochi centesimi, un profumo sano, naturale e variato che non finiva mai. In quella ciotola che a me sembrava un lusso stupendo finivano annegati anche i gelsomini.
   Via via, secondo le stagioni, si portava a casa sempre nuove prede: raperonzoli e salvastrella per l'insalata, viole delle siepi, tulipani dei campi, fragole dei boschi, more nere per fare la conserva, capperi da mettere sotto aceto, pine, gallòzzole e marroni d'india per i miei divertimenti gratuiti.
   La mamma aveva trascorso la seconda fanciullezza in campagna e anche ora, a trent'anni, rimaneva fedele alla sua prima alleanza con i fiori e i frutti, con gli alberi e i prati, con le pietre e con le acque. Quando era giovinetta aveva composto poesie e le ripeteva a me, la sera, nelle pause del ritmico strepito della piccola macchina da cucire. Sembrava quasi che ella divinasse, con la sua seconda vista di madre innamorata, la mia futura vocazione di visionario in prosa e in versi. Alla mamma e non soltanto a mio padre debbo il mio amore per la natura, per la musica e per la poesia. Non poteva lasciarmi più favoloso patrimonio. E anche per questo sia mille e mille volte benedetta.
   La mamma mi ha lasciato venti anni fa e negli ultimi tempi non cantava più e non rideva quasi mai. L'ombra nubilosa della vecchiezza era discesa sopra di lei, che di rado aveva goduto e molto aveva faticato e sofferto. Ma finché io sarò vivo la mamma non è morta e non morirà perché io la vedo sempre accanto a me, giovane, bella e ridente, col suo vestito chiaro color tortora, guarnito di trine leggere, sul quale brilla l'unico gioiello che le abbia visto, uno spillo d'oro foggiato come un nodo di marinaio. E ogni tanto, quando regna più regale il sole, torniamo insieme alla nostra cara via delle Campora e sediamo insieme sul tepido muro dove fioriscono eternamente i gelsomini per il povero profumo della sua povera gioventù.


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